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lunedì 27 gennaio 2014

Calde lacrime su un gelido terreno di morte. 27gennaio1945

Ci sarà davvero un paradiso dopo questo inferno?

Quando i soldati sono venuti a prenderci a casa, ordinando a mamma di preparare la valigia, pensavo che tutto questo fosse un gioco, o meglio, credevo che saremmo partiti per una vacanza che sarebbe rimasta indimenticabile.
Scendendo le scale scortati dai funzionari delle SS ho visto anche Davide, il mio amico che abitava nell'appartamento sotto al nostro, e allora ero ancora più felice perchè sapevo che non mi sarei annoiato insieme a lui.
Ci hanno portati alla stazione e ci hanno fatti entrare in alcuni vagoni per il trasporto animali dove eravamo ammassati in una maniera terribile, in condizioni che non vengono riservate neanche alle peggiori bestie, ma tuttavia, con lo sguardo ottimista e fantasioso di un bambino di otto anni, pensavo che anche quello facesse parte dell'avventura che stavamo intraprendendo. Non potevo immaginare che da un momento all'altro la cruda realtà sarebbe venuta a bussare alla porta della mia giovinezza per portarmi in un mondo di orrore, di dolore, di straziante esistenza; esistenza, perchè non si sarebbe potuto definire "vita" quel terribile periodo.
Dopo due giorni di viaggio siamo arrivati in un luogo dalle temperature impossibili, che sicuramente rasentavano lo zero come sottolineato dalla presenza della neve.
Ci fermammo davanti ad un grande cancello su cui campeggiava una grande scritta a lettere cubitali: "HARBEIT MACHT FREI", il lavoro rende liberi.
Superato quel muro di cinta che separava la normale vita da un inferno sulla Terra, il cancello venne richiuso dietro di noi, le Gestapo ci suddivisero in gruppi e fummo portati in delle costruzioni così misere, pericolanti, che sembravano delle capanne primitive, forse il primo abbozzo di un villaggio, il primo segno di una civiltà, una civiltà che nello stesso luogo era destinata ad essere annientata.
Anche noi più piccoli non ci impiegammo molto a percepire l'ostilità di quel luogo e fui quindi costretto a ricredermi sulla fantastica vacanza che in quel momento si trasormava invece in un terribile incubo.
Ci diedero delle divise luride, maleodoranti, consunte e sicuramente non sufficientemente pesanti per proteggerci da quell'inverno così tagliente.
Ci misero a lavorare, noi bambini compresi.
Dovevamo lavorare e non potevamo neanche scambiare una parola, non potevamo neanche liberare una innocua risata in quella terra di desolazione.
Ogni tanto nelle capanne venivano dei funzionari tedesche che prendevano alcune persone e le portavano in una capanna più grande e più lontana dalle altre a cui non ci era permesso avvicinarci.
Papà è stato uno dei primi ad essere portato lì e a non tornare, come è successo poi anche con mamma ed Ester, la mia sorella maggiore.
Nessuno sapeva che fine facessero tutte quelle persone, o almeno nessuno ce lo diceva, nessuno rispondeva alla mia unica domanda: "Dove è la mia famiglia?".
I giorni sono passati tutti monotonamente, tante ore al lavoro con il freddo che si posava su di noi e che faceva addormentare molte persone senza che si risvegliassero più.
Ogni tanto arrivavano nuovi treni con altre persone, tutti Ebrei, e nello stesso giorno scomparivano come era scomparsa la mia famiglia tanto Ebrei quanti ne erano arrivati.
Non è passato giorno in cui non abbia pensato a dove potessero essere andati tutti coloro che erano scomparsi, cosa succedesse in quella grande capanna sul cui tetto si arrampicava un uomo con un camice bianco ed un barattolo di cui versava il contenuto attraverso una piccola apertura che richiudeva velocemente dopo averlo svuotato.
Da quella porta passavano persone in piedi ed uscivano grandi sacchi pieni di chissà cosa che venivano poi gettati in una grande buca.
Ho provato ad entrare ma un soldato mi ha bloccato, mi ha stretto il braccio, ha letto il numero che mi hanno inciso sul braccio sinistro quando siamo arrivati, ha controllato un foglio di carta e ha detto che non dovevo essere lì, dovevo tornare subito a lavorare.
Per punizione mi diede un calcio nello stomaco con quegli stivaloni neri in cuoio dalla punta dura.
Mi accasciai a terra ma capii il mio errore, così tornai a lavorare e non provai più a scoprire cosa avvenisse in quella baracca.
Una notte mentre dormivamo fummo tutti svegliati da un gran fracasso, urla e spari.
Deve esserci stato uno scontro, una battaglia. Io volevo andare a vedere, mi sono sempre piaciute le guerre, ma Elena, una donna che dorme a qualche letto dal mio, me lo ha impedito.
Era la mattina del 27 gennaio 1945, il giorno della Liberazione.
Un soldato con una divisa molto diversa da quella dei tedeschi sfondò la porta della nostra capanna e ci fece uscire urlando con accento sovietico che eravamo liberi.
Uscii di corsa e mi ritrovai in una grande massa di Ebrei che si accalcava al cancello per cercare di uscire da quella prigione a cielo aperto, ma io non volevo andarmene, non senza la mia famiglia.
Riuscii ad uscire da quella folla e presi a correre in direzione della grande baracca dove le persone entravano ma uscivano solo sacchi pesanti.
Appena entrato in quel posto misterioso, un soldato sovietico che aveva appena chiuso una porta interna mi chiese cosa stessi facendo lì, così scoppiai a piangere e iniziai a singhiozzare che cercavo la mia famiglia che era stata portata lì dentro ma non era mai tornata.
Si avvicinò a me, io cercai di proteggermi pronto a chissà quale violenza, ma lui semplicemente mi prese in braccio e mi strinse a sè senza dire niente, senza preoccuparsi delle mie lacrime che bagnavano la sua divisa perfettamente in ordine.
Quel soldato mi portò a casa sua e mi disse che da quel momento sarebbero stati loro la mia famiglia.
Qualche anno dopo mi hanno raccontanto tutta la verità, mi hanno spiegato cosa succedeva in quella baracca da cui uscivano tutti quei sacchi, e mi hanno anche detto cos'era che veniva versato da quel signore con il camice attraverso quell'apertura sul tetto.
Ormai sono passati tanti anni, quel bambino di otto anni è rimasto in quella prigione gelata, io sono un uomo diverso, eppure porto ancora i segni della mia vera identità, come questo codice tatuato sull'avambraccio sinistro.
Quel che è successo non si può cancellare, ma bisogna anzi fare di tutto perchè non si ripeta mai più nei secoli a venire una strage simile.
Tutti gli anni, il 27 gennaio, torno in quella mia prigione, mi avvicino alla capanna più lontana e resto lì davanti all'entrata per ore, in silenzio. E piango.
Mi chiedo se ci sarà un paradiso dopo quest'inferno vissuto qui durante la vita, mi chiedo se queste lacrime calde riusciranno a cancellare la neve che ricopre questo terreno di morte.
Resto in piedi per ore.
In silenzio.
E piango.

Naufrago in quel maledetto mare di pensieri.

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